Postato da Lorenzo fakeskinny il
3 Maggio, 2011
Arrivato nella grande mela in un nevoso primo di aprile, sin dalla prima serata, alla faccia del jet-lag, ho provato ad inserirmi nel piano regolatore del clubbing indipendente della città.
Passando, nei vari giorni di soggiorno, dal supercool quartiere di Meatpacking, in zona Chelsea, alle Public Assembly più’ oscure di Brooklyn.
Facciamo un passo indietro.
LCD SOUNDSYSTEM decidono di dare l’addio alle scene col botto, programmando il loro ultimo concerto nientemeno che al Madison Square Garden.
“THE LAST SHOW EVER” era stato preso da tutti i fan come l’evento mediatico della stagione.
I tickets erano stati polverizzati dal secondo dopo che erano stati messi on line: d’altronde sarebbe stato l’ultimo concerto di sempre, il progetto sarebbe stato chiuso.
Su Ebay i prezzi dei pochi biglietti di “seconda mano” presenti erano schizzati fino oltre i 1000 dollari.
Nonostante tutto questo ero sbarcato a NYC carico di entusiasmo e smanioso di trovarne almeno 2 di questi agognati talloncini, in un mercato nero cittadino che speravo fiorente.
La prima sera poi, l’autostima derivante da una botta di culo/valida presentazione che mi permise di partecipare al Pre Party ufficiale organizzato dalla loro etichetta DFA, al 18esimo ed ultimo
piano di un hotel completamente in vetro sull’High Line con vista su Chelsea, mi convinse che ce l’avrei fatta.
La sera di venerdì primo aprile quindi mi immersi gratis e piacevolmente, insieme con la meglio gioventù’ musicale di New York, tra i vari artisti che solitamente leggevo sul sito della DFA,
chiamati in massa a far girare vinili per celebrare l’evento dell’indomani.
Si alternarono Shit Robot, Juan Maclean, Matt Cash, ed altri vari che con l’andar dei cosmopolitan che tracannavo fatico a ricordare.
Passavano dischi come Falling Up di Theo Parrish, Cavern dei Liquid Liquid o roba dei Talking Heads alternati a cose by DFA.
Donne e uomini, ma soprattutto donne, ballavano questa mistura di funk elettronico con il sorriso sulle labbra ed il cocktail in mano.
Capii subito che a New York bere è considerata una cosa tremendamente seria.
Il bancone del bar esplodeva, nonostante i 17 dollari a bevuta, l’atmosfera era incendiaria. Si prosegui’ così in un confuso crescendo funkalcolico fino alla mattina.
Tutto era figo anzi pheeguissimo.
Il giorno dopo, sabato, era arrivato, ed io ero ancora sprovvisto dei biglietti. Sin dal tardo pomeriggio avevo cominciato cautamente ad aggirarmi nei dintorni del Madison Square Garden per
cercare l’uomo giusto.
Sulle principali riviste musicali cittadine l’avvenimento era attesissimo.
La sera prima al Madison Square Garden suonavano i celeberrimi Strokes. Ebbene su Time Out, diffusissimo e credibile magazine di nightlife e non solo, consigliavano neanche tanto ironicamente di acquistare i biglietti degli Strokes, solo per provare a nascondersi dietro al proprio seggiolino ed aspettare lo show di LCD Soundsystem del giorno dopo, i cui biglietti non erano mai stati visti da nessuno. Nulla. Fino alle 8, ora in cui il concerto stava per iniziare, non trovai niente.
Poi l’unico personaggio che mi offrì 2 biglietti era un afroamericano alto circa 2 metri e largo 70 cm.
Nel giro di 40 minuti da 200 dollari l’uno riuscimmo a contrattare a 100 cad.
Scucimmo i soldi e di corsa dentro, in mezzo alla marea umana che stava arrivando da Pennstation, tutta vestita uguale, completamente di bianco con il cravattino nero, ad imitare James Murphy.
Passato il primo check point, cominciavo già a sentire in sottofondo la filodiffusione che scandiva note dell’ultimo cd degli LCD’s. Ce l’avevamo fatta.
Tutto liscio.
Fino all’ultimo limite.
Un uomo con la pistola ad infrarossi bloccò la nostra euforia. Ci invitò a far controllare nella fila apposita all’ingresso se il biglietto fosse regolare.
Cinque minuti dopo sui nostri tagliandi campeggiava il timbro indelebile “fake”.
Uscendo, vidi, a poche decine di metri, il bagarino che ci aveva dato il “pacco” ancora aggirarsi placidamente nella zona, forte della sua stazza.
Li per lì lo sconforto o l’adrenalina mi fece optare per un’azzardata pacca sulla spalla ed “Hey man, sorry man, give me my money back!!!”
Bhè, inverosimilmente lui si guardò intorno e mi ridiede i miei dollari. Non ci potevo credere.
La mia faccia doveva essere proprio incazzata.
Per un secondo pensai di riprovare a cercare un altro bagarino. Poi le incognite legate ad una nuova disperata ricerca prevalsero e decidemmo di spostarci salutando definitivamente la possibilità di assistere al “THE LAST SHOW EVER“.
Ci dirigemmo a Williamsburg per la cena e per avvicinarci al party, di cui, in modo avveduto, avevo comprato le prevendite su Resident Advisor (lì ero riuscito). Dalle 2 avrebbe suonato il mio ammiratissimo Caribou.
Non avevo mai visto niente di Williamsburg e l’impatto fu da non credere. Scendere a Bedford Avenue lascia a bocca aperta per l’immagine vintage di fiabesco villaggio Indie (o se preferite Hipster) su misura per music addicted.
Locali uno dietro all’altro per isolati; concerti, club ed ogni genere di espressione musicale in evidenza ad ogni angolo.
Le strade tappezzate di manifesti di live formidabili ascoltabili nei paraggi. Prezzi ragionevoli. Un viavai mostruoso e continuo di personaggi stile festival musicale.
Lontanamente potrebbe ricordare un po’ Friedrichshain a Berlino, più’ in grande; per altri versi anche alcune zone di Camden Town a Londra, ma decisamente più’ autentico e non turistico. Con un completamento come quello dello Skyline di Manhattan visto dalla parte di Brooklyn.
La serata continuò con la ricerca del locale, che facemmo fatica a scovare perché non era un locale. La festa si sarebbe tenuta al primo piano di un vecchio magazzino degli anni ‘40. Uno stanzone enorme con pavimento in parquet, bancone del bar costruito con legni improvvisati e consolle tipo altalena legata con delle cinghie ai tubi che passavano sul soffitto.
Mister Saturday, così si chiama questo party itinerante che ogni sabato offre un ospite internazionale e si sposta di settimana in settimana in varie zone della città.
Anche qui tappeto musicale tendente ad un funk-nudisco, con la gente che continuava ad entrare e a riempire lo stanzone e ad affollare il bar.
Se la sera prima a Chelsea il pubblico era da rivista patinata, lì a Brooklyn si avvertiva un’energia più’ meticcia, colorata e sudata, ma invitante ed accogliente oltre che spontanea e schietta.
Caribou si presentò in orario, con occhialini da vista modello professore in pensione, ma con una gran voglia di divertirsi.
Il set alternava pirotecniche girandole d’elettronica aggiunte a quel ritmo un po’ ruffiano che costringeva tutti a muoversi, pur senza un groove costantemente grasso o potente.
Doverose poi le parentesi Funk, regalate a mo’ di tributo alla città che l’ha inventato e in cui ancora ama inzupparsi.
Dopo averlo sentito live con la sua band, devo dire che anche in veste di dj risulta distinto, disinvolto ed introspettivamente estroverso.
Ottimo poi l’ascolto dell’inedito Ye Ye, uscito su vinile di li a poco, sotto lo pseudonimo di Daphni.
Tutto questo ed ero arrivato solo da un giorno e mezzo.
La mia permanenza prosegui’ ottimante di giorno come di notte, vagando più’ o meno casualmente tra dj set all’interno del Moma Museum, sempre aperte ballroom nel Lower East Side o nel
Village, che potevano regalare techno di giovani sconosciuti come di Francois Kevorkian. Oppure concerti di uno delle migliaia di gruppi in gamba reperibili a New York.
Mi sono imbattuto in ordine sparso in: Le Tigre, The Drums, Wire, Holy Ghost, Metro Area, un revival del Paradise Garage di Larry Levan .. tutta roba di primissima scelta che si poteva scialare nel mucchio delle proposte.
Dire “tanta roba” non sarebbe esagerato.
Poi per il gran finale, l’ultima notte NYese, il venerdì’ seguente, rintracciai leggendolo su un giornaletto locale l’Unsound Festival, programmato nella Williamsburg Public Assembly. Organizzato
sin dal pomeriggio, in collaborazione anche con Mutek Festival.
Questo Unsound nel line up presentava nomi gravitanti attorno all’etichetta inglese Hyperdub oltre che lo stesso fondatore proprietario Kode 9.
Mi presentai giusto in tempo per gli ultimi tickets disponibili.
Le due sale erano abbastanza piccole, nere con poca luce, all’interno di quella che era la sede primi ‘900 dell’Associazione Polacca di Brooklyn.
Mentre davo un occhiata in giro, un massiccio TurboSound sversava bassi sconcertanti sul pubblico. La ressa era tale che si faticava a camminare oltre che ballare.
Tra le proposte, non male il padrone di casa Badawi (Brooklyn) ed ottimo il live fluido ed ipnotico di Lone (aka Matt Cutler).
Trascinante Kode 9 a presentare il nuovo album in uscita in quei giorni. Discretamente occupato anche a dimenare le braccia, palese sintomo di carica ed apprezzamento verso gli spettatori.
Eccezionali infine le 2 ore circa di Appleblim in intensità e persistenza, barbituriche e colpevoli di decretare il definitivo smarrimento psicologico degli astanti.
Il mood di uno sciolto pubblico pareva aver raggiunto l’apice dell’ebbrezza poco oltre le 6 del mattino, proprio l’ora in cui poi i buttafuori, lavorando duramente, hanno dovuto spedire a casa i presenti, gonfi come tacchini.
Era da un po’ che volevo scrivere qualcosa sul viaggio, ma troppi erano gli stimoli, per quanto ho riportato, tanto ho dovuto tralasciare e un po’ mi dispiace.
Sintetizzerei fondatamente con una scritta vista sulla giacca di un ragazzo di colore a Brooklyn:
New York Fuckin City.
Lorenzo Teneggi
P.S.: Il concerto degli LCD’s poi l’ho visto per alcuni pezzi solamente su You Tube. Ho letto che ha fatto paura e loro hanno suonato tipo 3 ore. Peccato